IL TENORE MARCHIGIANO HA CONQUISTATO L'ARENA NELLA "CARMEN"
ESPLODE IL FENOMENO CORELLI DOPO VENT'ANNI DI CARRIERA
Verona, agosto.
Alla fine della « romanza del fiore » — uno dei momenti più attesi della Carmen — il pubblico" che gremisce platea e spalti dell'Arena di Verona scatta in una prolungata ovazione, costringendo il sergente dei dragoni Don José (al secolo Franco Corelli) a stare inginocchiato per qualche minuto con la testa china in grembo alla seducente protagonista (l'americana Mignon Dunn). In quel preciso istante Corelli vince (e rivince a ogni recita) la sua personale battaglia contro il ricordo che gli altri hanno di lui quando, nel 1961, cantò per l'ultima volta in Arena (e anche allora fu una polemica Carmen accanto alla Simionato): una battaglia davvero difficile, che però ha dimostrato come il tempo trascorso non solo non abbia lasciato tracce sulla voce (e sul fisico) dell'atletico tenore marchigiano ma gli ha addirittura giovato, arricchendo di colori la già ampia gamma espressiva e rafforzando la fermezza e la compattezza del suono con il risultato, del tutto inatteso, di abbellirgli il timbro. Ma tutto ciò quanto gli è costato? Sacrifici, ansie, angosce, paure. E' Corelli stesso a farcene partecipi, durante una tranquilla e simpatica conversazione, con il tono amaro e quasi disincantato di chi non è mai troppo sicuro della propria sicurezza. Ma anche se così non fosse, basterebbe osservare da vicino il pallore e qualche ruga precoce del suo viso penetrante per accorgersi che la ricchezza e la celebrità si pagano, eccome. E si pagano magari con la paura che attanaglia il « divo » ogni volta che sta per entrare in scena, ma anche con le diuturne cure di cui egli circonda la voce, sia preservandola da sforzi superflui (è noto, per esempio, che il giorno della recita Corelli preferisce esprimersi a gesti anziché a parole), sia studiandone a fondo i segreti con una dedizione che ai profani può sembrare mania ossessiva. In realtà è solo la dimostrazione pratica di un perfezionismo generalmente sconosciuto agli uomini e che ha invece in Corelli un assertore entusiasta. Del resto solo così si può spiegare la straordinaria carriera di questo giovanotto, Inizialmente dotato più sotto il profilo fisico che musicale, il quale ormai da una dozzina d'anni incarna come meglio non si potrebbe il prototipo di cantante moderno che piace agli intenditori e fa impazzire le ammiratrici. S'intende, con il permesso della signora Loretta, che vigila trepida e inquieta sull'esistenza del consorte, cercando di coglierne i più segreti impulsi e di interpretarne i più riposti desideri con una dedizione talmente intensa che alla lunga finisce quasi per nuocere all'oggetto di tante assidue cure. E' una donna sensibile e intelligente la moglie di Corelli, che talvolta sembra soggiogare il marito con la forte personalità di chi sa ciò che vuole e agisce per ottenerlo. E Corelli — che non è affatto arrogante e presuntuoso, come molti forse pensano, ma timido, introverso e tendenzialmente umile (ovvero l'opposto della signora Loretta) — sa quanto deve alla moglie e non ne fa mistero, così come, non ha dubbi nell'indicare in Giacomo Lauri-Volpi il suo grande instituibile mentore, colui che lo ha avviato sul difficile cammino della celebrità. E in un ambiente come il teatro lirico, incredibilmente pieno di invidie, rancori e pettegolezzi, dove ognuno si crede più bravo degli altri, non pare vero di sentire un tenore (e la di lui moglie, che è cosa ancora più rara) esprimersi verso un collega nel modo entusiasta e riconoscente che usa Corelli verso Lauri-Volpi. Non soltanto, ma — quel che è più singolare — anche verso colleghi di oggi come Bergonzl o Gedda, per tacere di un Del Monaco e di un Di Stefano, Corelli mostra stima e rispetto. Un solo nome ha il potere di irritarlo (e più di lui la combattiva signora Loretta): Placido Domingo, ossia il tenore più « chiacchierato » del momento. Forse perché c'è chi intravede nel giovane spagnolo l'astro sorgente destinato a eclissare Corelli e a raccoglierne l'eredità di primo tenore del mondo? Qualcuno lo spera e qualcun altro lo teme. Dal canto suo l'interessato ostenta sicurezza: in realtà la cosa sembra dargli un certo fastidio. E' normale che sia così, ma ne vale la pena? Forse. A noi però non dispiace immaginare Domingo che presto debba vedersela con un altro tenore. Di costui sappiamo che è un serio professionista, che da vent'anni ha fatto del canto la propria suprema ragione di vita, e che ha i mezzi per durare ancora a lungo in una posizione di supremazia. Anzi, diciamolo: è un autentico “fenomeno”. Si chiama Franco Corelli.
Giorgio Gualerzi
Da STAMPA SERA del 7/8 agosto 1970
LA BOHÈME FU LA SUA RECITA D'ADDIO
Una sera d’agosto del 1976, a Torre del Lago, Corelli cantava la “Bohème”. Erano anni che al Festival insistevano per averlo, decidesse lui l’opera e il periodo. Sembrava sempre sul punto di accettare, poi rispondeva “picche”. Il palcoscenico in riva al lago, un teatro all’aperto tra le piante, un cielo di stelle per soffitto, le scene lambite dall’acqua. L’umidità, acerrima nemica della voce, dominava. Una volta aveva perfino chiesto di misurarla, quell’umidità, perché forse, sotto sotto, accarezzava l’idea di cantare in un luogo tanto amato da Puccini. Finì per capitolare, due sole recite e stop.
Sentirlo cantare dal vivo, nel primo atto “Cha gelida manina” e il successivo duetto con Mimì con il suo fraseggio largo e nobile il timbro caldo e bronzeo, e quel gioco di legati e di portamenti così radicato nelle tessiture pucciniane, e dove lui era maestro, fu un’esperienza indimenticabile, Corelli, il grande, che incarnava il mito del tenore eroico e aveva dato tanto lustro all’arte lirica e al suo Paese, era tornato.
I farmacisti del melodramma, soppesando la sua prestazione (Corelli aveva allora cinquantacinque anni ed aveva debuttato nel 1951), si industriavano per ricercare qua e là i segni del tempo e dell’usura vocale, ma era impresa difficile: bastava soltanto la sua capacità di smorzare i suoni, partendo da un mezzo forte per arrivare al pianissimo, mantenendo una qualità di emissione più unica che rara.
In un intervallo andai a trovarlo in camerino: come sempre era provato dall’emozione, emetteva dei sussurri e, candidamente dubitava di poter portare a termine la recita. Con l’emozione Franco ci aveva sempre convissuto, era il prezzo da pagare per chi come lui fosse stato dotato dalla natura oltre che di una voce prodigiosa e di una bellissima presenza scenica, dicevano che era bello come un dio greco, anche di una straordinaria sensibilità. Era una costante: a mano a mano che si avvicinava l’inizio della recita, andava convincendosi che no, non ce l’avrebbe potuta fare, a Verona dove l’ascoltai per la prima volta dal vivo in quelli che erano i suoi ruoli chiave, “Carmen”, “Ernani”, “Aida” e “Turandot”, lo incontrai più volte. Amava la compagnia, si sentiva gratificato da chi gli palesava ammirazione sincera e a differenza della quasi generalità dei cantanti lirici, costantemente incentrati sul tormentone della voce, discorreva volentieri di varia umanità. Nei giorni di recita parlava con un filo di voce, come per paura di incrinare un equilibrio interno tanto prezioso quanto delicato. Un giorno al ristorante arrivò a cambiare posto tre volte tanto copiosa era la presenza degli spifferi. Qualche volta, dovendo esibirsi all’Arena, guardava le nuvole e con un sorriso ironico arrivava a sperare che piovesse.
Ma non pioveva e quando la sera Corelli faceva il suo ingresso sullo sterminato palcoscenico, il silenzio calava nel catino di pietra. Ti accorgevi che dal brigadiere dei dragoni, dal principe ignoto o dal tenebroso bandito ispanico scaturiva un carisma unico, ancor prima che attaccasse a cantare. Reagiva violentemente alla soperchieria e alle prepotenze, come quando, con la spada in pugno, aveva abbandonato la scena per inseguire uno spettatore colpevole di aver fatto sul suo conto apprezzamenti non graditi. Al termine della recita lo raggiunsi per un saluto. Lo trovai disteso e rinfrancato. Gli dissi che tutti si aspettavano ancora il suo debutto in “Otello”. La risposta, un sorriso velato di ironia. Nessuno e credo neanche lui, immaginava che quella “Bohème” dell’agosto 1976, sarebbe stata la sua recita di addio.
Giorgio Gervasoni
Dalla rivista settimanale “Il nostro tempo” del 9.11.2003, numero 40.