LA NAZIONE di Firenze (1916)
FIRENZE - LA MEMORABILE FESTA D’ARTE AL POLITEAMA FIORENTINO.
Siccome io non sono un qualunque cronista teatrale, non nascondo che a stendere il resoconto di una serata di beneficenza patriottica provo un po’ di fatica e di riluttanza. Ma quando penso che questa fatica e questa riluttanza la vinco per una amica e un’artista che stimo e che ammiro, la mia penna prende come si dice a Firenze “l’aire” e mi abbandono con tutta sincerità ai simpatici ricordi della grande serata che Donna Eugenia Burzio dette il 28 febbraio al Politeama Fiorentino coadiuvata da Fanfulla Lari e da Giuseppe Baroni.
Del resto a noialtri critici di razza credo che faccia bene perdere tanti freddi pregiudizi. Si potrebbe dire che per critica noi intendiamo quasi sempre una attività puramente cerebrale. Eppure per noi anime moderne; che più volentieri che in altre filosofie ci rispecchiamo nella filosofia d’intuizione e d’impressione il più possibile aderente alla vita (vissuta e non pensata soltanto) del Bergson, la critica cerebrale che troppo abbia bisogno per sorreggersi e per nascere delle quattro gambe del tavolino da lavoro; per noi anime moderne da cui il vento vivace del futurismo à soffiato via tanta polvere di falsi rispetti e di esose convenzionalità; deve avere addirittura il valore ad una rinascita critica questo cercar di rendere più agile la nostra percezione di ogni genere di creatività artistica e specialmente di quelle forme di creatività che uno sterile spirito di culturalità germanica anche tra noi italiani à voluto farci credere come inferiori. Nel nostro idealismo di compositori giovani fino a poco tempo fa abbiamo infatti stimato un cantante (e in genere un esecutore) come un artista inferiore. E invece basta vivere in po’ nel teatro, basta sentire quali miracoli di energia artistica un esecutore sprigiona su di una folla ora mareggiante d’impazienza, ora trepidante di ansietà, ora muta e statica come peplo di statue sotto l’influsso mediatico d’una grande scena di terrore; per non fare più assurde e altezzose differenze tra il creatore di opere e il creatore di interpretazioni. Cantanti, maestri concertatori, compositori, critici sono tutti spiriti posseduti da uno stesso Dio; quando io mi sento invaso da una corrente spirituale (perdonate il nervoso termine da elettricismo idealistico) e un’onda di musica nuova mi sprigiona dentro di me, non sono certo superiore all’attrice o alla cantante che con un’intuizione miracolosa crea, colla sua stessa materia viva, una indimenticabile creatura fantastica.
Eugenia Burzio è anch’essa una creatrice come tutte le vere cantanti. La sua arte avrà i suoi limiti, giacchè limitate sono tutte le attività creanti, il genio di qualunque grand’uomo la potenza di qualunque direttore d’orchestra, e anche questa mia acutezza critica che come mi permette di profondarmi nelle misteriose mineralogie d’un antica opera d’arte, così mi permette cogliere l’implacabile vibrazione della genialità diffusa di un vasto teatro gremito di pubblico da un grande interprete. Ma quando io con la sottigliezza di esegeta avessi tracciato inesorabilmente questi limiti non avrei fatto altro che rappresentare negativamente la personalità della Burzio.
Invece parliamone un po’ positivamente di questa personalità. Dove l’esistenza sola di questo articolo mio farà pensare a che sa quali lauti segreti compensi dati dalla cantante al critico rivelatore. Come se io che tanto spesso ò detto schiettamente ciò che mi piaceva in un grande quartetto di Beethoven vibrante di archi e di sinfonismo romantico, senza avere avuto naturalmente, neppure… un centesimo dallo spirito del genio di Bonn dovessi diventare a un tratto un critico venduto perchè parlo di ciò che mi piace nell’arte attuale d’una cantante che, oltre tutto, sa anche guadagnare bene!
L’arte della Burzio è tutta meritata di caldissima prepotente sensualità. Mentre era Santuzza io pensavo, trascinato mio malgrado in una atmosfera di strazio sensuale e di drammaticità passionale, che Riccardo Strauss ebbe a dire una grande verità, quando ascoltando non so quale opera italiananon poteva udirsi che in italia, cantata da artisti italiani.
Cavalleria, il sensualissimo spartito rigurgitante di colori di ritmi di melodie meridionali era iersera come dominato da questa figura di Santuzza in cui la Burzio sapeva con impeto d’arte personalissima e sincera infondere tutta la ferocia della passione popolare. Noi nuovi compositori italiani abbiamo tutte le ragioni a volere superare questa specie di “limite chiuso” del teatro musicale italiano: la popolarità e il senso veristico della passione carnale vissuta da anime comuni e popolari. Ma questo non vuol dire che il critico italiano non debba godere profondamente dei musicisti e degli interpreti che dentro questo limite sanno vivere e creare con tanta sincerità e vitalità.
Splendidamente intonata al carattere della Cavalleria fu l’interpretazione che la Burzio ci diede di alcune canzoni napoletane.
Il programma della grande artista comprendeva infatti, oltre l’intera esecuzione di Cavalleria rusticana (che ebbe un successo enorme specialmente dopo la romanza, cantata con passione dolorosa, e dopo il duetto con Turiddu) un numero di due romanze di stile serio, una del Maestro Brogi Notte bianca e il suicidio della Gioconda e di due romanze napoletane. Non mi dilungherò a parlare dell’interpretazione che la Burzio dette, delicatissima di Notte bianca, tragica e cupa diSuicidio. Mi fermerò invece a dare un’idea della grazia ingenua, dell’arte incantevole che seppe mettere nelle due canzonette napoletane. Ebbe mezze voci, staccati accenti sentimentali, rallentandi languidi e lascivi da mandare (come infatti mandarono) in visibilio la folla. E siccome queste canzoni la Burzio ebbe a cantarle in fine di programma inframezzato dall’inno di Mameli (ciò che la grande artista accennò con pensiero gentile con la propria voce), gli applausi del pubblico si tramutarono in una vera apoteosi. Non ci si stancava più di evocare la deliziosa e interessantissima artista al proscenio. E non posso trattenermi dal confessare che io da buon critico senza scrupoli e… senza peli sulla lingua nel mio più intimo pensiero riconosceva che il pubblico a entusiasmarsi così aveva tutte le ragioni; che la sincerità e la snellezza di quelle due melodie semplice e popolari valevano, oh! se valevano! Tanti di chili di musica così detta seria. Ma questo sia detto in un orecchio e in grande segretezza, altrimenti finisco anch’io per passare per un ignorante…. Che non sa la musica.
Oltre alla Burzio avevano preso parte alla serata il celebre violinista Fanfulla Lari e il Comm. Giuseppe Baroni. Il Lari aperse il programma sonando magistralmente L’Elegia del Bazzini, il Tamburino di Kreiser e concedendo un bis - una difficile riduzione della Cavalleria rusticana. Anche durante un intermezzo eseguì la scoppiettante Guitarre di Moskoski e accompagnò insieme al maestro Renato Brogi (che stava al pianoforte) la romanza Notte bianca cantata come abbiamo detto dalla Burzio.
L’arte del violinista Lari è forse una delle più complete che abbiamo in Italia. Di pretta tradizione italiana l’arco di Lari sa superare sul violino le più brillanti difficoltà e trarne le più delicate squisitezze sentimentali. Un mi rallegro sincero al nostro pubblico che non soltanto comprese il Lari e lo seguì nella sua non facile arte d’esecutore ma gli fece un’affettuosa e convinta dimostrazione di simpatia evocandolo moltissime volte al proscenio. E anche lodiamo Eugenia Burzio nella sua intenzione solamente nazionale nel volere suo compagno uno dei nostri migliori maestri dell’arco quasi a dimostrare che anche noi italiani abbiamo violinisti di grande stile da oporre ai celebri violinisti d’oltralpe.
Come intermezzo sinfonico l’egregia orchestra fiorentina, una orchestra che per precisione, sentimento artistico, bontà rara di elementi (e si badi che ora molti di quelli elementi sono alla guerra) meriterebbe in Italia di essere largamente apprezzata e conosciuta eseguì sotto la bellissima direzione del maestro Baroni, la Sinfonia della Battaglia di Legnano riscuotendo pieno consenso di applausi.
Inutile dire che il teatro era gremito oltre che al pubblico popolare, di quanto di più signorile ed eletto abita nella nostra elegantissima Firenze.
Di Giannotto Bastianelli
Tratto dalla RIVISTA TEATRALE MELODRAMMATICA - numero 2612-13 - del 10/20 luglio 1916