1870 - 1970 ALESSANDRO BONCI sulle orme di HANS SACHS
di Eugenio Gara
Tratto dalla rivista Discoteca numero 106 , dicembre 1970
Che la lesina e il marmotto, questi due importanti strumenti dei calzolai, abbiano una certa parentela con la musica, potrà sembrare un paradosso. Eppure, almeno due casi importanti convalidano il sospetto. Accadrà di rado, ma accade. Per esempio: quando nella grande Norimberga del Rinascimento il quindicenne Hans Sachs (1494-1576) abbandonò la scuola per mettersi a fare il calzolaio, non immaginava certamente che quattro secoli dopo, nella piccola Cesena, un altro futuro Maestro Cantore avrebbe percorso il cammino inverso, buttando all'aria gli arnesi citati, per andarsi a ingolfare, a diciannove anni, tra banchi, quaderni e carta pentagrammata.
Chi fece questo fu Alessandro Bonci. il grande tenore romagnolo nato appunto a Cesena il 10 febbraio 1870, del quale la ricorrenza centenaria non è stata (o c'inganniamo?) abbastanza ricordata. Strano, perché lungo la via Emilia il canto è sempre stato in onore. Lo sanno anche oggi le ragazze di Romagna, le floride "burdëli” che guardano passare a frotte i canterini delle diverse Camerate, mentre l'aria è piena di melodia e di richiami d'amore. Ma ieri - per la storia l'altro secolo è ancora un confidenziale ieri quella era terra di primedonne e di tenori illustri. Per una Geltrude Righetti-Giorgi (la prima Rosina del Barbiere) che tramontava, ecco saltar fuori quell'Angelo Masini che a giudizio dell'Adelina Patti era una specie di «eroe canoro dei due mondi». E quando Masini era costretto, o quasi, a gettare la spugna avviandosi serenamente al crepuscolo, ecco Bonci, appunto, che si faceva innanzi a raccoglierne la preziosa eredità.
Ciò poteva accadere anche perché in Emilia e in Romagna i rabdomanti della voce sono gente felice e in genere di orecchio fino. Felicissimo, quindi, fu il signor Augusto dell'Amore allorché s'accorse che il giovane calzolaio Alessandro aveva in gola una sorgente cristallina: di quelle che ai rabdomanti esperti fanno lanciare in aria, per la gioia, il magico bastoncino. Del resto, che il Dell'Amore non si fosse ingannato, lo confermò il direttore del liceo musicale di Pesaro, il veronese Pedrotti, tra l'altro operista di buona rinomanza. Lì, a Pesaro, l'allievo Bonci Alessandro trovò quel che faceva per lui: cioè una scuola severa e raffinata. Non solo, ma trovò anche, di colpo, un soprannome. Infatti i compagni lo chiamavano il "tenore milioncino", a causa della sua povertà. Sicuro, destinato a primeggiare, cominciò a scuola col primato della miseria. Così, non potendo pagarsi nemmeno una pensioncina a Pesaro, il ragazzo dimorava a Fano, presso una zia che l'aveva sistemato alla meglio; e tutte le mattine, col buono e col cattivo tempo, percorreva a piedi, andata e ritorno, una dozzina di chilometri dall'una all'altra città. (Dorando Pietri, celebrato campione di podismo, aveva dunque un precursore e non lo sapeva).
Studiava con la tenacia propria dei romagnoli. Allora, sebbene già si parlasse di decadenza - se n'è sempre parlato, da quando esistono melodrammi e virtuosi - l'insegnamento del canto era una cosa seria. L'Ottocento. il secolo dei Garcia, dei Panofka, dei Delle Sedie, è ancora un secolo fortunato quanto a pedagogia vocalistica. E il ragazzo Bonci arriva giusto in tempo, prima delle veristiche ripulse, per tendere il finissimo orecchio alle tradizioni di quell'ancora non contaminato "belcanto" che già si dissolvono nelle nebbie lontane del nostro Settecento.
Furono tre anni duri, di poco pane e discrete speranze: fino a quando nel 1892 rimase vacante (per la morte del titolare, quel pesarese Capponi che Verdi volle per la prima del suo Requiem accanto alla Stolz, alla Waldmann e al basso Maini) il posto di primo tenore alla Cappella di Loreto. Bonci colse qui la sua prima vittoria. Ma dopo aver vinto il concorso fece quello che pochi altri nei suoi panni avrebbero fatto: armonizzando i suoi doveri di cantore ascetico con quelli di studente, continuò a frequentare la scuola fino al conseguimento del diploma. Che cosa dicevano i grandi maestri antichi? Che sette, otto anni di preparazione accanita erano il minimo indispensabile per consentire all'allievo di affrontare la prova del teatro. Così quei maestri antichi, i Tosi, i Mancini; e così, ultimo predicatore dei sordi, lo scomparso Rossini. A crederci, in quel periodo fu appunto Bonci. Morale: sette anni di vocalizzi, di scale cromatiche, di gruppetti e acciaccature, di mordenti, di trilli eccetera. Un munitissimo bagaglio tecnico che gli consentirà poi di prendere con tutta sicurezza il gran volo. Mentre, dall'altra parte, quel vivere a stretto contatto con la musica sacra, il quotidiano elevarsi nella preghiera per dovere d'ufficio, quel continuo tendere a un'espressione "divina" in senso diretto, fuor di metafora, avranno la loro parte nella formazione del suo stile, dopo, in teatro. Tanto ritegno, tanta castità, una così serena purezza sono possibili soltanto a chi s'è accordato con l'organo prima che con l'orchestra, a chi ha amato Palestrina e Carissimi prima di Donizetti e di Verdi. Il Monaldi, infatti, che ebbe occasione di sentirlo nel 1894 - cioè ancora studente - alle feste centenarie della Santa Casa di Loreto, ne riportò una straordinaria impressione: «Quando la voce del Bonci intonò l'Ave Maria di Gounod, e quel suono purissimo echeggiò per la silenziosa penombra del tempio, parve veramente che qualche cosa di celestiale animasse quel dolce e melanconico canto». (1)
Poi, finalmente, il teatro: cioè il debutto al Regio di Parma la sera del 20 gennaio 1896, nel Falstaff. Le accoglienze furono buone, ma s'oltanto il successivo Faust al Dal Verme di Milano gli schiuse le porte della Scala, dove si presentò nei Puritani il 18 febbraio 1897.
Successo? No, non completo per essere precisi, specie nel tempestoso appuntamento dell'epilogo. D'altronde, sperare di passarla liscia sarebbe stato follia per chiunque, in un'opera così impegnativa. Sotto, lo sparato bianco, i vecchioni della platea e dei palchi avevano allora un cuore di sasso. I nomi delle celebrità "dei tempi felici" passavano, quando c'era un cantante nuovo, in rabbiosi o melanconici bisbigli, rimanevano sospesi un attimo nell'atmosfera pesante della sala, per poi rimbalzare sulle note dell'esordiente. Chi ricordava Tiberini e chi Mirate, qua un rimpianto per Fancelli, là un sospiro per Negrini, quando non t'imbattevi addirittura nella barba bianca che si agitava ritmicamente al suono ovattato di tre sillabe: Rubini, Rubini. Autentici racconti di fate. Meglio, a pensarci bene, i giovani impetuosi del loggione: più facili all'abbandono, più generosi almeno, sebbene esigenti anche loro, eccome, in un periodo in cui Tamagno era ancora Tamagno, e Cremonini e Valero, per tacere di De Lucia e Garbin, avevano già la loro falange; mentre per Julian Gayarre, l'uomo della Gioconda - morto da poco, appena toccata la maturità c'erano i fanatici che non ammettevano successioni. (Stagno e Masini, due colossi, non li abbiamo nominati di proposito, visto che alla Scala non ebbero modo di sentirli né i vecchi néi giovani. Il Masini, per disdegno. Bocciata la sua candidatura da Giulio Ricordi, quando ancora non s'era affermato tra i primissimi, giurò che lì, nella sala del Piermarini, non lo avrebbero visto nemmeno dopo, a gloria raggiunta. E da buon romagnolo mantenne il giuramento).
Tornando a noi, il mite Alessandro venne calato così nella fossa dei leoni. E l'avvio fu decisamente felice. L'aria di sortita - l'incantevole «A te, o cara», con quel vertiginoso do diesis che sappiamo - gli riuscì assai bene. Lo smalto primaverile del suono, l'eleganza del fraseggio, la finitezza dei contorni nel saldare, nota a nota, e soprattutto quel leggero velo di mestizia così appropriato al cantar belliniano, ebbero ragione d'ogni diffidenza. Ma che accadde poi? Reale stanchezza, oppure quell'improvviso smarrimento che sopravviene a chi ha scampato un pericolo quasi senza saper come, a chi nello scalare una cima, soltanto dopo, guardandosi all'indietro, si accorge d'aver sfiorato l'abisso? Difficile dirlo. Fatto sta che o al terzo atto le carte s'imbrogliarono un poco. E se il cronista del Corriere della sera cavallerescamente non ne dette notizia (“gli si può solo rimproverare”, scrisse, “la tendenza a dar ragione al Bellaigue il quale pretende che Bellini debba apparire costantemente piagnucoloso”), ci fu anche chi non usò mezzi termini. L'autorevole Nappi della Perseveranza, ad esempio: secondo il quale Bonci, dopo essersi fatto valere “al massimo grado” era apparso ad un tratto “uniforme, piuttosto floscio nell'accento, senza intensità di passione, senza il dovuto rilievo drammatico”.
Parole chiare. Ma ancora più chiaro parlò il manifesto della seconda recita, allorché accanto al personaggio di “Arturo”, si vide stampato il nome del tenore Marconi. Vittoria dei conservatori. Francesco Marconi è un divo indiscusso, di quelli con barbetta alla nazzarena e “gran Mogol” all'anulare sinistro, commendatore eccetera. La Scala, dunque, torna a essere la Scala. Eppure no, non è così, perché il tenore illustre ha ancora la sua bella voce, ma adesso, dopo vent'anni di carriera, c'è qualcosa che non va. Per voler essere troppo dolce, quel canto appare lezioso, la risorsa del falsetto suscita qualche brontolio, una o due note malsicure destano perplessità. E cominciano i rimpianti: dove s'è andato a cacciare il giovanotto dell'altra sera? Quello che dalla sua stessa trepidazione traeva il fascino di un sentire profondo, come un'ansiosa liberazione di voluttuosi segreti?
In breve, ecco la tipografia del teatro di nuovo al lavoro. Un altro manifesto, definitivo questa volta, per il ritorno di Alessandro Bonci, 27 febbraio. Diamo ancora la parola alla Perseveranza: “La terza rappresentazione dei Puritani chiamò ieri sera alla Scala una folla straordinaria, fors'anco attratta dall'annunzio della ricomoparsa del tenore Bonci, il quale questa volta ottenne un successo completo, veramente meritato. Egli ha mostrato che la musica di Bellini va eseguita come è scritta, cosa non troppo facile per i cantanti moderni, che fanno consistere soltanto il merito dell'arte loro nella voce più o meno educata alle discipline delle classiche tradizioni. Il Bonci non ha mezzi poderosi, tonanti; ma non si avverte il bisogno di una maggiore intensità perché il timbro è veramente omogeneo, d'un equilibrio, d'una impostazione veramente singolari. Di queste qualità egli si vale per ottenere le migliori modulazioni, trovando nella misura ottimi effetti improntati alla maggiore aristocrazia di intenti. Cantò squisitamente l'”A te, o cara”, la canzone, il duetto col soprano, e seppe affrontare il terribile scoglio del finale con completa sicurezza di voce”.
Pareva, dopo questo (le repliche in complesso furono dieci) che il ventisettenne Bonci si avviasse finalmente a una navigazione felice. E invece qualche brontolio ci fu ancora alla prima della Sonnambula (7 marzo, direttore Mugnone, con la famosa Pinkert protagonista). Il solito cronista scrisse che “non si poteva pretendere che dovesse [il giovane tenore] d'un tratto affermarsi un artista di cartello “, accennando tra l'altro all'orgasmo, al timor panico “provocato dal contegno del pubblico”, mentre si sarebbe detto “che egli avesse riconosciuto di essersi sobbarcato a un cimento superiore alle sue forze, per colpa di quel terribile ambiente che non ha risparmiato neppure artisti di grido” .
Parole. Dopo quella Sonnambula, e la successiva partecipazione alla prima di un'opera nuova del Franchetti, Il signor di Pourceaugnac, Bonci iniziò il suo giro nei maggiori teatri del mondo, passando vittoriosamente dal Rigoletto all'Elisir d'amore, dal Barbiere al Don Pasquale, ai Pescatori di perle, a Mignon, Werther e Bohème. E davvero la sua funzione, nel periodo che abbraccia gli ultimi anni del secolo scorso e il primo ventennio del nostro, fu importantissima, preziosa, quasi un apostolato: la missione del salvatore.
Egli arrivò quando più ce n'era bisogno: quando il distacco, non diremo dagli arcaismi - che sarebbe stato un bene - ma da certe architetture tipiche della nostra tradizione canora, già si veniva rivelando irreparabile. Era un lento processo di erosione che aveva lontane origini, e che l'ardente, muscoloso linguaggio verdiano aveva realmente affrettato: anche se l'accusa, attribuita al Von Bulow, d'essere stato lui, Verdi, l'Attila delle voci, era almeno in parte gratuita. (E Meyerbeer, allora? Un Tamerlano. E lo stesso Wagner?). Dopo Verdi, poi, il diluvio. Le esigenze del nuovo linguaggio musicale sono spietate. Non è tanto l'inasprimento delle tessiture quanto la violenza "molecolare" dell'espressione che trascina gl'interpreti verso un ideale nuovo: dove l'urlo, il singhiozzo, la sillaba vibrata sull'onda orchestrale travolgono i fragili, aerei merletti di un canto “bello” ma in gran parte già fasciato dalla penombra crepuscolare.
A questo punto si fa avanti Bonci con la fede arrabbiata del domenicano. Piccolo, esile, pare a tutta prima disarmato. Viceversa è armatissimo. È in lui qualcosa del testamento di Orfeo, qualcosa di profondo che egli custodisce con tenerezza gelosa. Nel paese del melodramma, ora agitato da mille fermenti, egli sa d'essere quasi un solitario, e questo raddoppia le sue energie, rinforza il suo credo. Proprio quando gli altri s'affannano a cercare i compromessi, egli volta la testa e tira diritto. Bonci è davvero, (come sarà poi Schipa) il miniaturista magico della melodia. II suo avorio è di una lucentezza rara, le sue colorazioni hanno trasparenze e contrasti vaghissimi. La nitidezza del disegno farebbe invidia a un Quaglia, a un Guérin. Egli applica al suono il concetto leonardesco della “divina proportione “. La sua articolazione è perfetta, come la descriverà assai bene il tenore Manfredi Polverosi una trentina d'anni dopo (2): “... Purissimo negli attacchi, conservava anche nelle note più acute una dolcezza infinita, sviluppandole a suo talento con effetti veramente mirabili. Mai sdolcinato, mai volgare, abilissimo nel “rubato”, il Bonci cantava veramente “con gusto e in tempo”, come dice Falstaff, per quanto tendesse, specie negli adagi, ad allargare, e spesso coronare, la nota puntata sul tempo debole della battuta; ma il suo canto era sempre animato da un sentimento sincero e, quando occorreva, da un accoramento così profondo che prendeva veramente il cuore”.
La materia prima? Due ottave di note tutte uguali, senza innesti falsettistici, senza comodi slittamenti nel ponte di passaggio tra fa e sol. Nel vocabolario di Bonci, in piena ondata veristica, i verbi forzare, gridare, scamiciarsi non esistono. Se cantanti, anche insigni, amano gettarsi contro l'orchestra a testa bassa, come il toro contro l'espada, ebbene, s'accomodino. In palcoscenico Bonci continuerà a camminare quasi in punta di piedi, come si aggirerebbe in una vetrina di Murano. E davvero, nei passi carezzevoli e insinuanti, il suono in lui si direbbe “soffiato” come un vetro prezioso e iridescente. Disciplina musicale a parte, il suo orecchio è infallibile. Stia pure l'acido Beckmesser dietro la tenda famosa: un maestro cantore come Alessandro Bonci può sfidare la pedanteria del più astioso aristarco.
Ordine, pulizia, continenza. Tutte cose che, a parlarne, suscitano l'idea della freddezza, per non dire dello stile accademico. Errore. Viceversa egli curava, per linee interne, anche quella che i vecchi teatranti chiamavano “caratterizzazione”. Sotto questo profilo, ad esempio, il suo Nemorino dell'Elisir poteva dirsi uno squisito modello fin dall'aria d'uscita, da quel “Quanto è bella, quanto è cara” che che egli accentava con una specie di indolenza tra ingenua e sorniona: come all'ultimo, preso nella trappola del rivale, il suo stupore sfociava alla “Furtiva lacrima” in un rapito trasognamento che conferiva, per contrasto, agilità e brio al risveglio finale. Tutto ciò con uno sviluppo così graduato e armonioso delle risonanze, con una pennellata così originale nell'acquarellare la parola, da rendere vivo in ogni suo risvolto il linguaggio donizettiano. Incontro felice che si ripeté più tardi, quando Bonci tornò alla Scala nel 19 I 7, al fianco della Mazzoleni, per la Lucrezia Borgia. Qui si vide, nel modo con cui i “cantabili” si allargavano all'occorrenza con energico accento, come avesse ragione il suo maestro, Felice Coen, quando diceva di lui: “Peccato che sia un po' piccolo di statura, ma non importa, quando canta diventa un gigante!” (3).
A questo punto, per concludere, s'inserisce la faccenda di quel Ballo in maschera che Bonci affrontò coraggiosamente qua agl'inizi di carriera, senza mai abbandonarlo, nel periodo della maturità e dell'inevitabile declino. (Il nostro “coraggiosamente« vale per il duetto del terzo atto e per alcuni passi dell’ultima romanza, di una così bruciate irruenza da allarmare qualunque tenore, anche più dotato e squillante di lui). C'è ancora oggi chi conserva il ricordo vivo di una pagina dell'opera verdiana interpretata da Bonci: e cioè della famosa proposta del quintetto - lo “Scherzo od è follia” insomma - con quei prodigiosi “staccati”, con quella cascatella di risate argentine a cui l'autore per la verità non aveva mai pensato, come risulta da un esame della partitura. Fu un successo enorme e al tempo stesso pericoloso. Infatti, come se il baricentro dell'opera si fosse improvvisamente spostato, c'era una parte (non piccola) del pubblico che andava a risentire quel capolavoro unicamente per quel corollario tenorile. Fu un bene, fu un male? Mah. Un fatto però è certo: che ci fu l'avallo dell'autore. Come risulta da una lettera di Verdi, il cui autografo è stato una ventina d'anni addietro riprodotto in Musica e Dischi. “Caro Bonci - scriveva dunque l'autore da Milano, il 21 maggio 1898 - nel mio vecchio Ballo in maschera che il pubblico fiorentino predilige, la vostra interpretazione mi è stata una sorpresa graditissima e mi ha fatto ridere: ridere col pensiero: riandando al tempo lontano in cui lo scrissi... “È scherzo od è follia”... va detto quasi parlato e sfiorato col canto, e l'aggiunta della risata rispettando il tempo e gli spazi, è una vostra unica privativa e specialità che Vi riconosco e che mi riconferma la vostra perizia e lo studio che voi ponete in ogni esecuzione “.
Così quel Verdi (ottantacinquenne però, forse un tantino già distaccato dalle cose terrene) che di solito era piuttosto duro con gl'interpreti, avverso comunque alle sovrastrutture da lui non previste. Toscanini probabilmente quella "privativa" non l'avrebbe lasciata passare: quando non fosse altro, perché la maggior parte del pubblico non dicesse - come disse per molti anni – “ andiamo a sentire non il “Ballo in maschera”, ma l'irresistibile risata di Bonci “.
II quale Bonci morì a Viserba, il 9 agosto 1940. Oggi, a trent'anni di distanza, a volergli fare il ritratto più somigliante bisognerebbe servirsi specialmente delle parole che più spesso uscirono dalle sue labbra: “Sogno soave e casto”, “Tornami a dir che m'ami”, “Ah, non mi ridestar”, “Quando le sere al placido”, e altre del genere. Sillabe, immagini che schiudono panorami celesti, primitivi e colmi di beatitudini o di malinconia: visioni, insomma, distaccate appunto dalle basse cose terrene.
(1) Cfr. Cantanti celebri del secolo XIX di Gino Monaldi - Roma, «Nuova Antologia », s.d. ma apparso intorno al 1910.
(2) Cfr. Ricordo di Alessandro Bonci nello « Spettacolo» del 15 agosto 1940.
(3) Cfr. Cantanti di una volta di Ulderico Tegani, pag. 234 (Valsecchi ed., 1945).