CORELLI: UN UOMO CHIAMATO TENORE
Di Rodolfo Celletti
Tratto dalla Rivista “DISCOTECA” numero 111 del giugno 1971
I mie rapporti con Franco Corelli si riducono a questo: una intervista per la RAI a Verona, nell'estate 1970, e una telefonata, a Milano, qualche mese dopo. Probabilmente è poco, per poter dire di conoscere un personaggio così complesso. Tuttavia, se i contatti con l'uomo sono stati radi e infrequenti, quelli con il tenore potrei definirli assidui, almeno negli anni in cui Corelli cominciò ad emergere: e siccome in Franco Corelli non sai mai dove finisce il tenore e comincia l'uomo, e viceversa, ritengo di poter parlare di lui con qualche cognizione di causa.
L'uomo è una vittima del tenore. Ha una coscienza professionale che funziona come uno strumento inventato, che so io, da Manoel Garcia figlio. Un suono fuori posto, uno solo, durante una recita, provoca reazioni a catena e, come minimo, una notte insonne. Sono parole di Corelli, quasi testuali: anzi lui aggiunse: "Non dormo io e non lascio nemmeno dormire mia moglie. Guardi che bel guadagno! "
Con la coda dell'occhio, senza parere, cercai di inquadrare il viso della signora Loretta, che assisteva al colloquio. Ma la signora Loretta era - o sembrava - intenta a sorvegliare le mosse del suo barboncino che pochi minuti prima, a tradimento, aveva azzannato i pantaloni di un cameriere dell'albergo. Così la sua espressione era - o sembrava - del tutto aliena dall'esprimere un parere sulla questione del travaglio notturno. Allora azzardai l'attacco frontale. "Signora, suo padre era un buon cantante e spesso era scritturato da grandi teatri. Aveva anche egli un nome da tutelare. Che succedeva se si accorgeva di aver emesso un suono sbagliato?».
"Non succedeva nulla. Per mio padre fare il cantante, stare sulla scena, era un divertimento, non un supplizio. Credo però che dipendesse da un fatto. Era malato, sapeva che la sua carriera non sarebbe durata molto. E allora la considerava un diversivo, anzi come una piacevole evasione dalla realtà. Mi spiego?" Risposta centrata, senza dubbio: e sottile. Solo che, ai miei fini, io avrei preferito sentirmi rispondere, in quel momento: "Mio padre era un basso, mio marito è un tenore. Mi spiego?"
Resta comunque da vedere se a una replica del genere sarebbe stato legittimo e onesto attribuire il significato di una pura e semplice battuta. Prendiamo Nicolaj Ghiaurov, ad esempio. È un basso, esattamnte come lo era Umberto Di Lelio, il padre della signora Corelli. Questo non lo salva, però, da una palese vulnerabilità, in materia di maggiore o minore resa vocale. C'è anche in lui, cioè, come in Franco Corelli, un fondo di gelosa apprensione, per il proprio prestigio di cantante celebre, che somiglia a una piaga sempre irritata e dolente e che si ripercuote non soltanto sull'umore, ma sull'indole. Voglio dire, con questo, che Corelli e Ghiaurov avvertono in modo patetico, fino a sentirsi infelici, il peso della loro fama. Non nascondo la mia particolare predisposizione a comprendere, e ad apprezzare, i cantanti di questo stampo. La loro inquietudine, la loro malinconia, il loro sentirsi in bilico su un precipizio, ha poco a che vedere con le apprensioni e i deliqui che più o meno tutti provano, per una reazione meccanica, quando mancano pochi minuti all'entrata in scena, ma è, invece, un portato dalla coscienza professionale. È indubbio, però, che Corelli tende ad esasperare il problema, a dargli dimensioni laceranti. Il suo strumento di tortura, anzi di autotortura, sono il registratore e i nastri. A volte, mi dicono, non è nemmeno finito un atto che già lui è chiuso in camerino, intento a riascoltarsi; e se c'è il famoso suono fuori posto, il pubblico può anche averlo subissato di applausi, qualche attimo prima: la malinconia e il rammarico si sovrappongono al successo, anzi lo cancellano in toto.
"Forse ", mi disse Corelli l'estate scorsa, "forse, se io non fossi un tenore, avrei una visione più pacata di queste cose. Il tenore, lei lo sa, ha quelle famose due o tre note, in vetta al pentagramma, da cui dipende tutto o quasi tutto, nei rapporti con il pubblico. Sono queste note che, in un certo senso, lo rendono diverso dagli altri cantanti: più applaudito, ma anche più vulnerabile. Ecco il punto ".
I frutti del melodramma romantico, pensavo nel frattempo io. Per tutto il Seicento e il Settecento, quando il pubblico prediligeva i timbri e i colori stilizzati e rari dei castrati, il tenore aveva minoriresponsabilità. Si accontentava di un timbro, di un colore e di un'estensione baritonali e rappresentava la voce naturale dell'uomo, quella più affine al linguaggio parlato. Poi vennero i romantici e vollero tramutare il tenore in amoroso, ispirandosi un poco al modello del contraltista evirato. Lo portarono su alte tessiture, schiarirono il suo timbro, lo resero stilizzato e angelicato ad un tempo, gli imposero gli estremi acuti a piena gola. In realtà, crearono una voce nuova, che prima non esisteva: suggestiva, ma artificiosa, innaturale. Soprattutto in quelle due o tre note al vertice del pentagramma alle quali Corelli alludeva l'estate scorsa, durante il nostro colloquio di Verona.
L'UOMO
Aitante, asciutto, slanciato come ai tempi in cui era di casa alla Scala e non già al Metropolitan, Franco Corelli sembra aver accusato il trascorrere del tempo soltanto nel viso, che si è un poco scavato, e nei capelli, che si sono sfoltiti e lievemente brizzolati. I suoi movimenti e la sua andatura, sulla scena come nella hall di un albergo, sono elastici ed eleganti, il suo sorriso è giovanile e accattivante, ma con una screziatura di malinconia annidata agli angoli delle labbra. Parla con un timbro chiaro e leggero, senza mai alzare la voce. Si sorveglia, sceglie le parole con cura, si innervosisce se gli sfugge un'espressione che gli sembra impropria, nei primi contatti è cauto e fors'anche un poco diffidente.
Più che di teatro, gli piace parlare di canto e di tecnica vocale. Passa per il tenore più studioso del nostro tempo e vorrei aggiungere che ha il temperamento del primo della classe. Carlo Bergonzi e Alfredo Kraus, che pure sono cantanti diligentissimi e di grande stile e che contraddicono anch'essi la tradizione del tenore latino improvvisatore, svogliato e pasticcione, non hanno l'animus del primo della classe. Corelli lo ha; vorrebbe emergere, sempre ,e dovunque, ancor più di quanto non abbia fatto finora, e questo, conveniamone, è piuttosto difficile, per un tenore del suo rango e della sua fama. Questa sete di successo e la paura del pubblico lo tormentano, senza dubbio, ma sono anche la causa prima della sua eccezionale capacità di affrontare sacrifici e fatiche.
“C'era una volta”, comincio a dire, “un tenore che, tra il 1954 e il 1957, udii alla Scala nella “Vestale”, nella “Fanciulla del West”, nella “Fedora”, nei “Pagliacci”. Aveva un fiume di voce, ma ogni volta che l'ascoltavo mi faceva accapponare la pelle dal raccapriccio Il peggio era che la gente l'applaudiva. Forse perché era un bel ragazzo. Altra spiegazione non sapevo darmela, a quel tempo”.
“Ammetto,” replica Corelli, “che quel tenore era un uomo fortunato. Pochi mesi di studio e te lo mandano in scena. Altri pochi mesi e entra nei grandi teatri”. “Forse perché era alto un metro e novanta,” commenta Giorgio Gualerzi, presente al colloquio. “Non c'era spazio nei teatri piccoli, per lui”.
“Tutto sta ad intendersi sul significato della parola fortuna,” prosegue Corelli. “Io, nella fattispecie, sarei tentato di parlare di fortuna con una certa ironia. Però non stiamo tanto a sottilizzare. Fui fortunato e basta”.
“Bene”, riprendo; “giunge la primavera del 1958 e io vado alla Scala a sentire la Callas nel “Pirata”. Dalla Callas mi attendo molto; dal signor Corelli, che fa Gualtiero, non m'attendo nulla. Penso mestamente a un certo “Pirata” del 1935, in cui Gualtiero era Beniamino Gigli, e mi accingo ad ascoltare “Nel furor delle tempeste” con estrema malagrazia. Corelli apre bocca, canta poche battute, e io trasecolo. Lui va avanti, conclude l'aria e io mi ritrovo a battergli le mani, se non con furore, almeno con convinzione. È capace di spiegarmi che cosa era avvenuto?”.
Le labbra di Corelli si tendono (orizzontalmente) in un fievolissimo sorriso. Seduto su un divano e apparentemente rilassato - ma in realtà guardingo e un poco teso – ha un'improvviso moto di distensione.
“Che vuole che le dica? Non ho difficoltà ad ammettere che all'inizio della carriera cantavo pessimamente. È la pura verità. E poi non creda che ai tempi del Pirata avessi già risolto tutti i miei problemi. Avevo soltanto cominciato a risolverli. C'è differenza. “Soggiunge:” Non li ho risolti completamente nemmeno adesso. Questa è la verità.”
IL TENORE
Ho sempre avuto un debole per i baritoni tenoreggianti, ma non ho mai provato un amore sviscerato per i tenori baritonali, fatta eccezione per alcuni eroi del disco: Caruso, Jadlowker e, dato e non concesso che fosse veramente baritonale, Tauber. Corelli ha poco a che vedere, in disco come in teatro, con questi semidei, ma ha anch'egli un versante mitologico che già da adesso gli assegna un preciso posto nella storia del canto. È il tenore titanico della nostra epoca, un'ugola turbinosa e balenante in giorni di voci limitate o nel volume o nell'estensione.
Il fatto che non piacesse a me o addirittura che non piacesse a se stesso, agli inizi, dice poco. Una larga parte del pubblico intuì che dietro il suo modo brado di cantare si allargavano vasti orizzonti; anch'egli doveva esserne in qualche modo consapevole, ad onta della sua insoddisfazione: diversamente, scrupoloso com'è, avrebbe lasciato il teatro. Certo si è che, tra il 1957 e il 1958, Franco Corelli compi un'impresa che riesce, di solito, una volta su cento: imparare a cantare restando in carriera.
Corelli, come tutti sappiamo, debuttò a Spoleto, con la “Carmen”, nel 1951, L'opera di Bizet fu veramente la sua piattaforma di lancio. La ripetette alle Terme di Caraçalla di Roma nel 1952, al Massimo di Palermo nel 1953 e in diversi altri teatri, fra cui l'Arena di Verona nel 1955 e la Fenice di Venezia nel 1956. Il suo repertorio, in quegli anni, parve indirizzarsi verso le parti di tenore “centrale”: Romeo in “Giulietta e Romeo” di Zandonai (opera di Roma 1952), Canio (Televisione, 1954), Johnson della “Fanciulla del West” (Fenice di Venezia e Verdi di Trieste nel 1955, Scala nel 1956). La “Vestale”
di Spontini (esordio alla Scala nel dicembre 1954 e soprattlitto la “Norma” (Municipale di Piacenza nel dicembre 1954, Municipale di Reggia Emilia, Maggio Fiorentino, Terme di Caracalla nel 1955) confermarono questo indirizzo. Pollione può anche avere, nel contesto della sua vocalità, vari la e vari si, nonché un do nell'aria di sortita. Si sa benissimo che Donzelli, il primo interprete, non arrivava, a voce piena, che al sol naturale e che, di conseguenza, tutti i suoni al di là di questa nota furono scritti da Bellini per essere emessi in falsettone. Ma la tessitura è chiaramente baritonale e le difficoltà in cui, di solito, i Pollioni del nostro tempo si trovano impaniati, derivano esattamente dal fatto che certi effetti di forza richiesti da Bellini comporterebbero un colore, un volume e un'intensità, nel medium non compatibili con il tipo di fonazione che i tenori hanno adottato da quando i la, i si e i do acuti si emettono a voce piena o “di petto”. In sostanza, la parte è troppo bassa per i tenori moderni se si guarda alla tessitura e, al tempo stesso, troppo alta se si guàrda al do di “Meco all'altar di Venere” e a qualche altra nota.
Non sto a dire come Corelli cantasse la “Norma” a quel tempo perché non ebbi modo di sentirlo. Nel 1955 mise in repertorio l’”Aida” (Bellini di Catania, San Carlo di Napoli; poi Fenice di Venezia nel 1956) e anche su questo mi mancano elementi di giudizio. Posso dire che per me Radamés, come del resto tutti i tenori verdiani tolto Otello, non è affatto un tenore drammatico anche se ha espansioni passionali e qua e là epicheggianti. Quindi deve essere incline al cantabile assai più che alla declamazione, deve avere effusioni a mezzavoce - come, del resto, lo stesso Verdi qua e là esplicitamente richiede -deve saper “legare” e “portare” con leggerezza e carezzevolmente, deve avere morbidezza in zona di passaggio (diversamente va a picco nel “Celeste Aida” non appena messo piede in scena) e deve possedere lucentezza e squillo assai più che volume: il che, in definitiva, (o conduce nell'ambito delle voci amorose e dei tenori chiari. Il Radamés più aderente a questa mia personale visione del personaggio resta sempre il Lauri-Volpi degli anni “venti” e degli anni “trenta”. Può darsi che il giovane De Muro e, soprattutto, il giovane Martinelli rispondessero anch'essi a questo tipo di Radamés, ma qui entriamo nelle supposizioni, spesso labili, dei conoscitori di dischi. E allora, naturalmente, bisognerebbe parlare di Caruso, di Zenatello - le cui incisioni non mi piacciono affatto - e di chi sa quanti altri.
Però di Caruso si può parlare: se non altro per ricordare che a lui, tenore centralizzante da “Carmen” e da “Pagliacci”, l’”Aida” servi da passaporto, all'inizio della carriera, per cominciare a familiarizzarsi con le tessiture acute del melodramma romantico. Credo che a Franco Corelli accadesse lo stesso, una quindicina d'anni fa: vale a dire che, con tutta probabilità, Radamés fu il primo passo dell’”escalation” che doveva sfociare nel “Poliuto” e negli “Ugonotti”.
Resta però il fatto che, sul piano astratto, il Radamés di Corelli era, all'incirca, la negazione del Radamés che piace a me; così come il suo Cavaradossi (Bellini di Catania e Carignano di Torino nel 1955) e il suo Loris (Scala, 1956) erano la negazione del tipo di canto che un tenore di un certo livello dovrebbe poter offrire nella “Tosca” e nella “Fedora”, senza nemmeno scomodare i fantasmi di Caruso e di Bassi, di De Lucia e di Gigli, di Anselmi e di Björling.
Vorrei dire, con questo - e lo dico, ovviamente - che il Corelli di quegli anni, più che cantare, declamava con una voce grossa e bituminosa. Gli mancava l'elemento primo del canto, che è il passaggio da un suono all'altro fluido, spontaneo, omogeneo, senza durezze, senza stiracchiamenti, senza spigolosità. Sappiamo che in quegli anni andava per la maggiore, nel repertorio “spinto”, Mario Del Monaco, che al canto “legato” ha quasi sempre guardato come Mefistofele alla croce e all'acqua santa. Ma Del Monaco aveva una declamazione travolgente nella sua concitazione un accento elettrizzante, uno slancio irrefrenabile in certe invettive, un timbro nitido e caldo nei centri, per la sua bronzea lucentezza, un meccanismo di passaggio un po' faticoso (e infatti il suono era piuttosto fisso, da quei paraggi, o comunque aveva vibrazioni diverse dal resto), ma che funzionava non appena la voce, districatasi dall'ingorgo dei mi, dei fa e dei sol, prendeva trionfalmente il volo verso il la e il si, con riflessi effervescenti e iridati.
Corelli saliva con sforzo, pur producendo acuti di ampia portata e dava l'impressione - errata - d'essere piuttosto limitato nel registro superiore. Inoltre cantava sempre a voce piena, con durezza, senza varietà di inflessioni e infine aveva, qua e là, vibrazioni e oscillazioni irregolari. Il timbro e il colore erano condizionati dalla pesantezza della fonazione nel medium, che si risolveva in suoni marcatamente baritonali e tali che, nei momenti buoni, mi facevano pensare a Benvenuto Franci, baritono, ai suoi dei di, d'estensione tenorile. Ma tutto questo la memoria lo ricorda a freddo, come se decifrasse una scheda; il colore, il sapore, l'intima essenza della voce del Corelli 1951-1957 è come se fossero stati completamente cancellati dalla voce del Corelli degli anni successivi.
L'INTERPRETE
Se lasciassimo la parola al principale interessato, a Franco Corelli, appunto, affermerebbe - come ha confidato a me - che bisognerebbe cancellare anche il ricordo del Corelli di dieci anni fa e magari, in aggiunta, suggerirebbe di distruggere tutte le incisioni di quel periodo. Gli risposi che non ero affatto d'accordo, quando me lo disse, e rimango dello stesso parere.
Corelli sostiene che nel 1958, nel 1959 e negli anni immediatamente successivi la sua voce era ancora troppo baritonale e aveva una certa opacità. Ammetto che l'ascolto di incisioni più recenti - senza poi contare la “Carmen” veronese dell'estate 1970, alle cui recite ho assistito -, rivelano una smaltatura più tenorile e una maggiore regolarità di vibrazioni, ma la
personalità vocale e interpretativa di Corelli, come s'affermò dal 1958 in poi, non si discosta molto dall'attuale. Tenore baritonale era allora, e tenore baritonale Corelli è rimasto, pur avendo alleggerito e schiarito il medium.
Ma poi, oggi come ieri - per ieri intendo dieci anni fa, all'incirca - certe frasi scritte per le tessiture centralizzanti del tenore verista escono dalla sua gola con un vigore, un'ampiezza, una risonanza eccezionali. Dal mi sul primo rigo al mi in quarto spazio Corelli può cantare con molta morbidezza e anche smorzare il suono e addolcirlo; gli restano sempre un volume, una muscolosità e una brunitura di dimensioni baritonaleggianti, assieme a una baldanza e a uno slancio di fraseggio che normalmente i tenori in quella zona non possono permettersi, sotto pena di giungere al passaggio di registro nelle condizioni meno idonee per iniaziare l'ascesa agli acuti.
Sempre tra i due mi, il timbro di Corelli sembra mancare, anche al presente, dell'insinuante languore e dell'impasto caldo dei tenori mediterranei; e questo, per la verità, anche quando il suono è piegato a tinte tenorili. Il Corelli dell'altro ieri, poi, quello che cantava male, era ruvido, granuloso e un poco artefatto, come timbro e come impasto, nell'ottava di cui stiamo parlando; pareva una voce al nerofumo, portata a scurire le vocali - anche indipendentemente dal colore sancito dalla natura - accentuando fino all'esasperazione il classico atteggiamento della gola durante l'emissione “sombrée”; laringe spasmodicamente abbassata, velo paladino spasmodicamente rialzato, appoggio della colonna sonora contro il palato.
Ouesto modo di cantare, proprio soprattutto allo stile stentoreo-declamatorio, èl a negazione della grazia e della voluttuosità e a volte, ad onta dello spessore dei suoni, dà un senso di opacità e monotonia. Quando Corelli rettificò il tiro - lavorando, ho l'impressione, soprattuttoa rendere più leggeri i centri e meno oscurate o “incappucciate” certe vocali -
modificò in parte la posizione della laringe e del velo palatino e spostò l'appoggio verso le cavità facciali (“maschera”), ma la sua fonazione restò sostanzialmente quella della voce “sombrée” e lo stesso timbro, sebbene reso più spontaneo e vivido, conservò
l'inconfondibile sapore del suono che si forma nella volta del palato.
È un timbro freddo, per il canto d'amore e per l'abbandono elegiaco, e ancor oggi Corelli sarebbe un tenore piuttosto monotono, nelle raffigurazioni dei lirismi d'un personaggio innamorato, se non lo soccorressero altre qualità. Ma, ripeto, la sua, nel medium, non è una voce amorosa.
La pratica della voce “sombrée” ebbe per altro il merito di facilitargli l'acquisizione del passaggio di registro, di cui l'arrotondamento dei suoni è la conditio sine qua non. Proprio il passaggio di registro è uno dei punti di forza dell'organizzazione vocale di Corelli. La zona “mista” (mi bemolle - sol bemolle) rappresenta un raro esempio di perfetta saldatura tra le risonanze “toraciche” dei bassi e dei centri e le risonanze “di testa” degli acuti. La zona mista, in quasi tutti i tenori, è sempre più debole del resto dei registri, suona o meno corposa o meno brillante oppure o troppo aperta o troppo tubata. In Corelli, la zona di passaggio, ha lo stesso vigore, lo stesso volume, la stessa pienezza, le stesse vibrazioni del settore
centrale e, in più, già presenta certa tipica fosforescenza del settore acuto. Una fosforescenza che, ovviamente, si accentua a misura che la voce sale. Ma qui si sfiora il fenomeno vocale. Giacché gli acuti di Corelli, dal sol al re bemolle, hanno il vigore e la pienezza di un medium baritonaleggiante trasportato in zona stratosferica, con l'aggiunta della lucentezza e della spontaneità dati dalle risonanze “di testa”.
Quando, nel 1958, udii Corelli nel “Pirata”, la cui tessitura è acutissima (la parte di Gualtiero fu scritta per Rubini, tenore contraltino e, dopo il si bemolle, falsettista) la facilità e la strapotenza del settore alto mi stupirono. Non solo erano note sfolgoranti, ma davano un preciso senso all'espressione: “voce che riempie un teatro”; un'espressione che, novantanove volte su cento, siamo soliti usare a vanvera.
Si dà il caso che io sia piuttosto allergico agli acuti dei tenori e che sia portato a considerarli assai più come un male necessario che come un segno di gloria. Ma assuefatto a un Corelli che a volte boccheggiava già sul la naturale, il Corelli che sosteneva con disinvoltura una
tessitura come quella di Gualtiero, ed emetteva per di più acuti divampanti, francamente m'entusiasmò. M'avrebbe però colpito di meno se non avesse dimostrato che gli estremi acuti non rappresentavano la sua sola meta e la sua sola conquista. Si percepivano qua e là emissioni a mezzavoce e note filate. A volte l'esecuzione non rendeva piena giustizia all'intenzione, mostrava una certa mancanza di rifinitura; ma appariva chiaro che questi tentativi non erano fatti sporadici, avventurosi ghiribizzi, ma rientravano in una metodologia. Ma poi, se anche certe mezzevoci e certe filature non erano ancora perfette, si avvertiva chiaramente che Corelli aveva gia imparato ad ammorbidire i suoni e questo, finalmente, gli consentiva di cantare: vale a dire di “legare” e di dare espressione alla frase musicale.
Non molto tempo dopo, Corelli si misurò con i il “Trovatore”, ed ebbe successo sia al Comunale di Bologna nell'autunno del 1958, sia alla Scala, in quella stagione 1958-59, che lo vide impegnato anche in “Ernani”, “Turandot” e “Carmen” e, alla stregua dei risultati, ancora migliorato rispetto all'anno precedente.
A questo punto, Corelli entrò decisamente nel novero dei grandi tenori. Ernani fu un personaggio che egli sfiorò soltanto pur dandogli un grandissimo rilievo; lo stesso avvenne con Poliuto (Scala, 19601961) e con Raoul degli “Ugonotti” (Scala 1961-62); ma José e Calaf sono ancor oggi due figure che Corelli delinea in modo straordinario e che i pubblici di quasi tutti i maggiori teatri del mondo hanno avuto modo di apprezzare.
Nel gennaio 1961 Corelli esordì al Metropolitan con il “Trovatore”, cui seguirono “Turandot” e “Don Carlo”. Alla Scala tornò fino alla stagione 1964-65, poi fu quasi completamente risucchiato dagli Stati Uniti. Una “Forza del destino” a Firenze nel 1967 e la rentrée del 1970 all'Arena di Verona, con “Carmen”, credo costituiscano le sue due più importanti rappresentazioni italiane degli ultimi anni, insieme a qualche comparsa all’Opera di Vienna. Per il resto, Metropolitan e dintorni, con ampliamenti di repertorio di non grande importanza. Il “Romeo e Juliette” di Gounod, cantato con la Freni al Metropolitan, ha avuto molto successo in questi ultimi anni; non così, sembra, una recentissima “Lucia”. L'estate scorsa, quando l'incontrai a Verona, Corelli aveva in preparazione anche il “Werther” e parlava, sia pur vagamente, d'un ritorno alla Scala con il “Romeo” di Gounod. Questa propensione al genere lirico non mi stupì. Celeberrimo come tenore di forza, a Corelli piacerebbe oggi, con tutta probabilità, raggiungere altrettanta fama come cantante elegiaco-nostalgico. Questa è un' irrequietezza tipicamente tenorile. Il suo maestro Lauri-Volpi si risentì, una volta che lo paragonai a Tamberlick. «Io che ho cantato“Barbiere”, “Manon” e “Sonnambula” », osservò, «che cosa posso avere in comune con quel cantante “stentoreo”»? Cambiò opinione, però, e me ne diede atto, quando ebbe accertato che Tamberlick cantava abbastanza spesso “Don Giovanni” e “Don Pasquale”. Tamberlick, tuttavia, è passato alla storia per l'"Otello» di Rossini, per il “Trovatore”, per il “Poliuto”, per il “Profeta” e nessuno si sognera mai di ricordarlo come Ottavio o come Ernesto.
Così Corelli: anche se è piaciuto molto come Romeo al Metropolitan (nell 'edizione fonografica, per la verita, io l'ho trovato piuttosto alterno), anche se ha inciso il “Faust”, anche se arrivasse a darci un ottimo Werther, non potrà mai far dimenticare ciò che ha fatto in alcune riesumazioni d'importanza storica (“Poliuto”, “Ugonotti”) e ciò che continua a fare in certo gagliardo repertorio romantico-verista, “Carmen” e “Turandot” in testa, ma anche “Trovatore”, “Aida”, “Don Carlo”, “Andrea Chénier”, “Fanciulla del West”, nonché, almeno nell'ambito fonografico, “Norma” e “Forza del Destino”.
In realtà, quando nell'Ottocento il pubblico e la critica definivano “stentoreo” un tenore di forza, non intendevano dire che non sapesse smorzare un suono o emetterlo a mezzavoce. Perfino Tamagno, in certi periodi della sua carriera, arrivò a far apprezzare certe sue modulazioni a fior di labbro - specie nel “Poliuto” -, ma la sua connotazione prevalente era tutt'altra. Per me, Corelli è un tenore strapotente che, all’occorrenza, sa cantare con morbidezza e sa modulare. In sintesi, la mia ammirazione per lui è legata a questa sua capacità, nel secolo scorso abbastanza frequente - ma mai troppo -, oggi rarissima, se non unica.
In sede analitica il discorso si allarga. In Corelli è rimasto qualcosa, a distanza d'un secolo e mezzo, della tradizione dei baritenori del periodo neoclassico: il volume, il colore e l'ampiezza dei fiati. Il suo modo di fraseggiare, ad esempio, è eccezionalmente largo e sostenuto in certe opere che si riallacciano al primissimo Ottocento.
In questo senso, il suo personaggio tipo è Pollione della “Norma”. Sorvoliamo sulla considerazione che le parti in coturno e cimiero si addicono a Corelli per la prestigiosa presenza scenica; ma il suo Pollione, come risulta anche dalle testimonianze fonografiche, con il volume di suono che scatena all'avvio di “Meco all'altar di Venere” o in altre frasi di tessitura centrale (“Quando fra noi terribile”), ha anche un'eccezionale prestanza vocale.
All’allegro “Me protegge, me difende”, il suono si dilata con una veemenza esplosiva e tracotante. Nei gorghi rabbiosi e violenti di quel fiume di voce s'avverte veramente l'onnipotenza d'un proconsole romano, sia pure da melodramma, e a questo punto io arrivo a comprendere, o quanto meno a intuire, perché, ancora agli esordi del romanticismo, il pubblico s'infiammasse tanto per certi tenori baritonali.
Franco Corelli, venuto alla ribalta in un periodo di notte fondissima, per quanto concerne la tecnica vocale dei tenori e in particolare dei tenori di forza – ha avuto il merito d'essere stato il primo a ripristinare il buon canto, ispirandosi qua e la a un modello particolarmente significativo: Giacomo Lauri-Volpi. Ma il suo gusto e la sua estrazione risentivano della lunga prevalenza del repertorio verista nonché dell'ormai secolare culto dell'acuto tenorile. Questo lo portò a trascurare alcune rifiniture. Nella “Norma”, per esempio, di fronte alle pur modeste agilita scritte da Bellini, nel duetto Pollione-Adalgisa, per un Donzelli che di fiorettature e ornamenti era stato un buon esecutore solo all’inizio della carriera, Corelli rifiuta l'ostacolo e spiana tutto. Lo stesso fece, negli “Ugonotti”, al duetto Raoul-Margherita.
Menda, per conto mio, da attribuire assai più a una mentalita molto diffusa nei primi sessant'anni del nostro secolo – la inutilita della parte ornamentale per le voci maschili - che non ad incapacità. Tanto è vero che le quartine d'agilità “legate-staccate” della “pira”, Corelli imparò ad eseguirle con nitidezza e mordente. Continuò però ad ignorare, come quasi tutti i tenori del nostro secolo, i trilli di “Ah sì, ben mio”. lo scommetto che entro di sé ritiene ridicolo un tenore che trilla o, comunque, del tutto irrilevante la buona esecuzione di un ornamento rispetto alla sfolgorante sciabolata di un si bemolle o di un do.
Sotto questo aspetto Corelli è un po' démodé, oggi, mentre non lo è Bergonzi, per esempio, e non lo è Domingo. Corelli è cresciuto, ma non è nato, nel clima Callas. Ha affrontato, ad un certo punto della sua carriera, riesumazioni di estrema difficoltà, ma, in certi dettagli, senza eccessivo rigore filologico e con l'occhio volto alle armi più tipiche del tenorismo tardoromantico e verista.
La sua fede nell'acuto tenuto a lungo, oltre che potente e squillante, è ferma e incrollabile e le accoglienze del pubblico gli danno ragione, del resto. Tuttavia, anche questo è uno scostamento, rispetto al gusto interpretativo odierno. Direi una altra cosa: Franco Corelli preferirebbe forse lasciarsi uccidere anziché emettere il si bemolle dell aria del fiore della “Carmen” in falsetto, come l'ha scritto Bizet e come l'esegue Vickers. Di fronte, cioè, a certe esigenze della regalita tenorile, Corelli non decampa, né in nome della filologia, né in nome delle prescrizioni dell'autore. Anche in ciò è abbastanza ovvio riagganciarlo al suo mentore LauriVolpi. Inoltre, caso stranissimo in un cantante così diligente, indulge a volte a certe formule nate con il preciso intento di facilitare l'esecuzione vocale. Alludo agli attacchi con acciaccatura oppure a certi portamenti strascicati, escogitati per agevolare taluni acuti, che hanno anche l'inconveniente di sfociare in un'intonazione “a scivolo”. Tutti espedienti dei quali Corelli non avrebbe in realtà bisogno perché la sua tecnica - ornamenti e fioriture a parte - è così ferrata da consentirgli perfino di ridurre a un soffio, dopo una lunga filatura, un acuto poderosissimo. Ma anche Bonci, anche De Lucia, anche Lauri-Volpi - tutti autentici maestri - avevano di queste debolezze, convinti di potersele permettere, in nome della comodità vocale, per tutto ciò che di inimitabile donavano in cambio al pubblico. Corelli è dello stesso ceppo, è un “divo”, come conformazione generale, e dei divi ha, con le travolgenti impennate, anche l'indole un poco ombrosa e portata a momenti di panico e di smarrimento.
Ma torniamo al suo fraseggio largo e sostenuto da baritenore neoclassico. Trasportato in clima romantico, questo modo di cantare è qua e là un pochino enfatico e ridondante, ma assai più spesso si risolve in nobiltà e vigore intimamente fusi. L'aria di entrata di Ernani, come la cantò Corelli alla Scala nel 1959 e come risulta da un disco Cetra all'incirca di quell'epoca, è un esempio preclaro di come, in Verdi, si possano raggiungere passione, forza e larghezza epicheggiante con un canto morbido e levigato.
Corelli, in genere, non lavora molto sull'accento e sull'articolazione e dove il repertorio lo costringe a farlo - per esempio nei “Pagliacci” - non è troppo a suo agio, è costretto ad aiutarsi con la retorica del singulto. Il suo sistema di fraseggio è invece impostato sul colore e sulla graduazione dei suoni. La singolare ampiezza dei centri e l'altrettanto singolare robustezza della fascia mi-sol interviene nel gioco con effetti a volte sorprendenti. Questo vale per il cantabile e vale per il recitativo. “Se quel guerriero io fossi” è un'altra sua pagina da grande tenore verdiano, ma ancor più lo sono, forse, il recitativo e l'aria di Don Alvaro. Già Corelli ha un'affinità di fondo con certi personaggi romantici piagati da una malinconia intima e irreparabile: Ernani, Raoul, Don Carlo, Don Alvaro, per l'appunto. Ma, nel caso di Don Alvaro, una tessitura spesso abnorme, ora sbilanciata verso il grave, ora protesa a far fraseggiare il tenore sul sol e sul la acuti, costringe gli esecutori a freni e cautele d'ogni sorta. Corelli, secondo una testimonianza fonografica di notevolissimo valore, raggiunge, nel recitativo e nell'aria, una varietà di colori e di inflessioni davvero rara. La prima parte del recitativo è impostata intimisticamente, con largo impiego di mezze voci; ma proprio per questo la frase “I miei parenti sognaro un trono” suona poi così possente e lacerata. L'aria vera e propria è ricca di superbi slanci ascensionali, con questa particolarità, però: che non solo i si bemolle di “chiedo anelando ahi misero” o di “Leonora mia, pietà” sono lanciati con straordinario impeto, ma tutta la frase è scagliata verso l'alto come un blocco bronzeo di suoni.
Qui gli effetti di atletismo tenorile che molti rimproverano a Corelli, e che io stesso di tanto in tanto depreco, non hanno parte nel discorso. Quando Corelli vinse la memorabile battaglia degli “Ugonotti” alla Scala, non poteva evidentemente fare troppo assegnamento sulla raffigurazione nostalgico-malinconica che molti tratti di Raoul invocano, ma spostò tutto o quasi tutto in chiave di fremente o appassionato vigore. Impresa estremamente ardua, data la tessitura acutissima, scritta per un tenore falsettista: ma un sistema di respirazione saldo come una roccia e capace di sostenere per tutto l'arco del periodo musicale non singole note, ma frasi intense, vibranti e ribollenti, portò Corelli a un successo di cui oggi già si parla come d'un evento leggendario.
Nella “Turandot” il caso è analogo. La scena degli enigmi e l'aria “Nessun dorma” trovano in Corelli uno dei Calaf più incandescenti e perentori che si ricordino; senza poi contare che alla vocalità di questo personaggio la magniloquenza del fraseggio di Corelli dà dimensioni e spessori veramente fiabeschi.
Vorrei concludere con Don José. Il Don José di Corelli, nella prima parte della “Carmen”, è quello reinventato dai tenori italiani e spagnoli, i quali hanno la specialità, sembra, di rendere estroversi i personaggi più chiusi ed enigmatici. Manca altresì, nella raffigurazione di Corelli, qualsiasi velleità di rifarsi al tipo descritto da Mallarmé, che aveva qualcosa di nordico. nell'aspetto (gli occhi azzurri, i capelli biondi e anche una fluente barba, non meno bionda) e, insieme, qualcosa di demoniaco («... sa figure, à la fois noble et farouche, ma rappellait le Satan de Milton»). In definitiva, anche al don Josè di Corelli, come a tutti i Josè italianizzanti, mancano inizialmente i tragici tratti del “predestinato”, mentre mirabilmente predestinati, sin dal primo istante, sono il suo Raoul, il suo Don Carlo, il suo Ernani; e quest'ultimo anzi, alla Scala, sembrava un quadro, tanto belli, nobili, patetici erano l'espressione, gli atteggiamenti, il portamento, i gesti. Ma, per tornare a Bizet, dopo averci posto di fronte a una sorta di fanciullone che si lascia sedurre da Carmen più o meno come Des Grieux da Manon nell'atto di San Sulpizio, Corelli raddrizza il personaggio. Lo fà, è vero, sempre nel solco della tradizione italianeggiante, ma il suo canto all'aria del fiore è carico di tensione e di passione e, alla chiusa del terzo atto, come pure nel duetto finale, ha esplosioni travolgenti, sorrette da una recitazione adeguatissima. Così la claudicante impostazione psicologica si muta in una smagliante affermazione sul piano scenico e, soprattutto, sul piano vocale e questa è una tipica impresa da grandissimo tenore, conveniamone.
IL PROFESSIONISTA
Del resto, che Corelli tenda a soffermarsi prevalentemente sui problemi vocali,
emerse in modo esplicito da molti squarci della nostra conversazione dell'estate scorsa.
«Manchino dieci giorni o due ore a una recita,» mi disse, «io non faccio altro che pensare a ciò che avverrà nel momento in cui dovrò eseguire una certa frase, prendere un certo acuto, addolcire una certa nota. Nei limiti del possibile, io cerco di predisporre, per ogni problema vocale, più soluzioni. Mi piace variare accenti, colori, inflessioni. Ma anche questo mi complica la vita. » Soggiunse, dopo' un attimo: «Il pensiero è sempre là, capisce? Sempre là. Non si comanda alla voce come a un piede o a una mano. lo passo la vita a studiare. a cercare di migliorare. Ma non riuscirò mai a disporre della voce come d'un piede o d'una mano. Ho sempre di fronte l'incognita di ciò che avverrà in scena. Perciò il pensiero è sempre là. »
Di tutti i tenori che ho sentito in vita mia, Corelli è quello che con maggior disinvoltura sa venire a capo d'una tessitura centrale come d'una acutissima. Con tutto questo - o, forse, proprio per questo - s'appassiona, anche polemicamente, alla questione del diapason. Al Metropolitan, afferma, la frequenza del LA 3 è di 442 Hz, contro i 444 della Scala. A Firenze e alla RAI la frequenza è ancora più alta, forse. Che cosa si può fare?
Gli annunciano visite di riguardo e Corelli consulta l'orologio. «Come al solito,» dice, «giunti all'argomento più importante bisogna troncare. Ma Lei scriva qualcosa. Non è possibile andare avanti così...» È più di un secolo che se ne scrive, caro Corelli, ma è stato sempre un gran pasticcio. Nemmeno una commissione formata da Hérold, Meyerbeer e Auber, e presieduta da Rossini riuscì a imporre i 435 Hz ai tempi di Napoleone III. Oggi la frequenza dovrebbe essere di 440 per tutti i paesi del mondo, ma è pura teoria. Anche questo contribuisce a rendere difficile il mestiere del tenore. Quelle famose due o tre note in vetta al pentagramma che, secondo Corelli, rendono il tenore diverso dagli altri cantanti; diventano sempre più pericolose a misura che la frequenza si alza.
«Con tutto questo debbono essere sempre pronte. sempre facili. sempre lucenti; diversamente si defrauda il pubblico. Per ciò il pensiero è sempre là, senza tregua, consapevolmente o no. L'unica vera evasione è lo studio. Vocalizzi, vocalizzi e ancora vocalizzi. Ma quando hai finito, il pensiero ritorna là: al personaggio, all'acuto, al pubblico. Entri in teatro e vorresti fuggire. Quando hai finito respiri. Improvvisamente la vita diventa bella.»
« Fino a quando non entra in azione il magnetofono, » osservo.
« Precisamente ».
Riporto lo sguardo sulla signora Loretta, anche lei vittima insonne dei suoni non ineccepibili eternati da quell'ordigno infernale. Non solo i grandi tenori sono patetici, penso, ma le loro mogli. A volte.