I ricordi genovesi di un celebre cantante
DONDE ENRICO CARUSO SPICCO’ IL VOLO PER LA GLORIA
La trattoria del “Gigio” in Piccapietra - Chi mi dà mezzo toscano? - Pranzo L.180,
Romanze L.300 - La marsina rossa del veglione - Un busto troppo e nulla pagato
GENOVA, luglio
Prima che cantasse a Genova, il tenore Enrico Caruso era del tutto ignoto; non aveva « fatto » che qualche teatro di second'ordine, rivelando una splendida voce, ma anche un'imperizia ed una immaturità che non ne consigliavano le scritture.
Il debutto che lo lanciò verso la via della gloria e dei milioni, lo fece a Genova al teatro Carlo Felice, il 20 gennaio 1898, e con una opera destinata all'oblio, la « Bohème » di Ruggero Leoncavallo.
Impresario della stagione di carnevale al Carlo Felice era in quell'epoca il Massa, che lo ebbe per molti anni a più, riprese: Il cartellone era composto di opere tutte appartenenti a Sonzogno, il quale, in concorrenza a Puccini e a Ricordi, voleva lanciare la « Bohème » di Leoncavallo. Aveva già scritturato per questa due artisti di chiarissimo nome, Regina Pìnkert e Antonio Pini-Corsi; mancava il tenore e scritturò Enrico Caruso che aveva sentito cantare nei « Pagliacci » e gli era piaciuto pel timbro e lo squillo argentino e vibrante della voce.
Sonzogno però, che voleva assicurare all'opera, nuova allora, una grande esecuzione, non voleva nè Caruso per tenore, nè De Luca per baritono, ma tenne duro il buon Massa e dimostrò d'aver ragione, poiché Caruso e De Luca divennero due indiscutibili celebrità.
Il trionfo colla Fedora
Sino dalla prima prova, il maestro Alessandro Pomè rilevò che la voce del tenore ignoto era fresca e dolcissima. E se la « Bohème » antipuccinìana non piacque molto, il successo di Caruso (ch'era Marcello) fu assoluto e brillantissimo, tanto che il Massa lo scritturò subito per cantare «I Pescatori di perle » del Bizet che dovevano rappresentarsi subito dopo, e ch'egli, sotto la guida del Pomè, imparò in sei giorni.
Caruso sfidava il confronto con Masini e Gayarre... e vinceva; fu il suo trionfo assoluto, la consacrazione.
Ma fu anche il suo ultimo canto a Genova perchè dopo il trionfo nella «Fedora» di Giordano nel novembre di quell'anno a Milano, fu portato via dall'Italia e qui non si fece più sentire.
Ma lasciò nella Superba dei ricordi incancellabili e... curiosi.
Caruso alloggiava in via Assarotti, alla pensione Mancinelli: ma si sa che gli artisti mangiano anche volentieri dopo lo spettacolo. Uscendo dal Carlo Felice, il tenore si recava dal « Gigio »...
L’astuzia del Gigio
A pochi passi dalla porta di servizio del teatro, dalla quale entrano ed escono gli artisti, c'era, sul piano di Piccapietra, una modesta ma simpatica trattoria: si chiamava « Il Piccolo Righi » nell'insegna; ma la gente l'aveva battezzata « dal Gigio ».
E Gigio era Pietro Solari che gestiva la trattoria, avendola ricevuta in eredità da uno zio morto una diecina d'anni prima: avendo qualche lieve mania artistica, intesseva facilmente amicizie coi cantanti, di genere maschile, perchè le artiste trovavano che il suo locale non era abbastanza... nobile per loro.
Naturalmente, il Gigio era un assiduo frequentatore del teatro Carlo Felice: egli era l'amico e non il trattore dei suoi artisti. Con Caruso divenne più particolarmente amico che non gli altri: ii suo primo incontro era però avvenuto da Zolesi, il caffè-concerto notissimo in fondo alla Galleria Mazzini.
Il Gigio non mancò ad una rappresentazione dove cantava Caruso; al quale erano state assegnate 4000 lire per cantare, le due opere, la «Bohème» e «I Pescatori di perle »
In poco tempo Caruso, incoraggiato dalle buone, calorosissime accoglienze fattegli dal pubblico, s'era scaltrito e rinfrancato, raggiungendo una sicurezza e libertà di atteggiamenti notevolissime.
Per sua serata d'onore cantò «I Pescatori di perle»: in quest'opera vi sono due romanze per tenore bellissime, sicchè ogni sera Caruso doveva bissarne almeno una.
Il Gigio conobbe la segreta astuzia usata da Caruso per non doverle ripetere ogni sera tutte e due: il tenore cantava meravigliosamente, secondo che voleva bissare più presto o più tardi: l'altra la eseguiva bene, ma non da... furoreggiare. Invece alla sua serata d'onore le eseguì tutte e due in modo così perfetto ed entusiasmante che... dovette trissarle!
Ci teneva molto ad essere cavalleresco e gentiluomo: una sera che si trovava da Zolesi. con sette od otto amici, d'improvviso, Caruso si rivolge ad essi chiedendo chi avesse da offrirgli mezzo toscano. Tutti glie lo avrebbero offerto... ma nessuno ne aveva. Allora, chiamato un cameriere, gli disse:Prendi, va a comperare un mazzo di toscani pei miei amici che sono senza fumare...
Durante la stagione ebbe luogo al teatro Paganini una serata di beneficenza. Interrogato se avrebbe accettato di cantare una romanza andò volentieri ed eseguì « Spirto gentil » della « Favorita » in modo tale che dovette cantare due o tre altri pezzi.
Generoso; e spiritoso anche. Verso la fine della stagione del Carlo Felice offerse un pranzo agli amici e scelse per ristorante il Righi sull'altura magnifica della città: sapendosi che quella sera vi sarebbe stato Caruso con buona compagnia, molta gente era salita lassù affollando il salone. Terminato il pranzo, il direttore del Righi pregò il tenore di cantare qualche romanza, per soddisfare il desiderio degli accorsi. Caruso gentilmente accondiscese alla preghiera e cantò dapprima la romanza della « Carmen » di Bizet « Il fior che avevi a me tu dato... » poi, col baritono De Luca esegui il duetto dei « Pescatori di perle » suscitando deliri di applausi e richieste di bis.
L'originalità di una sera
Quando il direttore, verso la mezzanotte, presentò a Caruso il conto, che ascendeva a 180 lire, il tenore gli disse: Bene, vedo che non è affatto caro, anzi, c'è moderazione. Voglio contraccambiare la cortesia. Per aver cantato, anche con De Luca, vari pezzi di musica, farò una nota di 300 lire; vuol dire che, detratte le 180 lire del conto, me ne darà soltanto più centoventi...
Il direttore restò non poco imbarazzato, ma Caruso scoppiò subito in una sonora risata, gli consegnò 200 lire, lasciando le venti quale mancia ai camerieri. Per la serata d'onore, a Caruso fu donato un busto in marmo, scolpito dal Canessa di Salita S. Siro. Il busto era stato suggerito dagli amici, ma il Massa, impresario, si prese l'impegno di pagarlo; così avvenne che volendo pagarlo in troppi, il Canessa non ricevette il compenso da nessuno, rimettendovi non solo il lavoro, ma il costo del marmo, l'imballo e il trasporto fino a Milano.
A Genova è rimasto celebre il frak rosso di Caruso.
In quel carnevale s'era dato a Palazzo Pignone un gran ballo aristocratico, al quale i cavalieri intervennero tutti col frak rosso, come quello delle caccie alla volpe: ballo che ebbe una vasta risonanza in città e nel mondo elegante. Caruso ebbe la fantasia colpita da quel rosso... e quando al Carlo Felice si svolse il solito tradizionale veglione di carnevale vi comparve in calzoni di raso chiusi al ginocchio ed in frak rosso: l'originalità gli procurò un successone di applausi.
Ma l'amicizia più viva che Caruso lasciò a Genova, fu quella pel Gigio: quando parti - per non mai tornare nella Superba - egli regalò al suo trattore geniale un gran ritratto con firma, che rimase per sempre nella sala della trattoria, finché questa visse. E vi scrisse sotto: « Al caro Gigio, ricordo affettuoso di E. Caruso »
Quante migliaia di persone lo hanno contemplato?
A. Orta
Tratto dal quotidiano “Stampa Sera” n° 169 del 16 luglio 1936
Per intergrare l'articolo
ritengo sia utile inserire l'esatta cronologia delle recite eseguite a Genova da Enrico Caruso
Teatro Carlo Felice: 20 gennaio 1898
Ruggero Leoncavallo, LA BOHEME - 13 recite
Marcello: Enrico Caruso
Mimì: Rosina Storchio
Rodolfo: Giuseppe De Luca
Colline/Visconte Paolo: Rodolfo Angelini-Fornari
Schaunard: Antonio Pini-Corsi
Barbemuche: Giuseppe Frigiotti
Ettore Negrini: Gaudenzio
Direttore: Alessandro Pomè
-----------------------------------------------
Teatro Carlo Felice: 3 febbraio 1898
Georges Bizet, I PESCATORI DI PERLE - 8 recite
Nadir: Enrico Caruso
Leila: Regina Pinkert
Zulma: Giuseppe De Luca
Nourabad: Oreste Carozzi
Direttore: Alessandro Pomè
Tra il 23 ottobre e l’11 novembre del 1900
ENRICO CARUSO
debuttò al Teatro Sociale di Treviso il ruolo di Mario Cavaradossi in Tosca di Giacomo Puccini al Teatro Sociale di Treviso (dodici recite)
TREVISO, 25 ottobre (N.C.)
La “Tosca” al Sociale. - Il pubblico trevigiano ha apprezzata la nuova opera del maestro Giacomo Puccini, ed ha ammirato ancora una volta la di lui profonda conoscenza di tutti i segreti dell’arte; ha applaudito il musicista sempre ispirato ed appassionato in modo che incatena l’attenzione di tutti fino alle ultime note.
L’atto primo. Della chiesa, venne assai gustato per le melodie veramente spontanee - e per la fattura orchestrale squisita.
Il tenore Caruso rappresenta con fine arte il pittore Cavaradossi; la sua voce bellissima, estesa e potente, animata da profonda passione, affascina e trascina all’entusiasmo. Dovette bissare l’aria: Recondita armonia.
La simpatica signora Giachetti è una Tosca eccellente. Fino al suo apparire, si acquistò le simpatie generali. Venne meritatamente apprezzata per i pregi che ha nel canto e nella drammatica.
Un altro artista che egregiamente rappresenta il carattere di Scarpia, è il baritono Magini-Coletti dalla voce chiarissima e robusta. Canta con bell’accento drammatico e rappresenta l’azione con una realtà sorprendente.
Il basso Beccucci (Sciarrone) viene assai apprezzato pel suo buon metodo di canto. Si debbono per ricordare il Borelli ed il Ragni, i quali non so se meglio possano disimpegnare la loro parte.
I cori, istruiti dal maestro Marin, sono veramente ottimi.
Lo spettacolo di quest’anno del nostro Sociale è riuscitissimo, e ciò a merito della solerte Presidenza, che ebbe il fine tatto di affidarsi alla impresa Corti, degna in tutto di elogio.
Avremo una stagione fortunata.
TITO G.
La locandina:
Floria Tosca: Ada Giachetti
Mario Cavaradossi: Enrico Caruso
Il Barone Scarpia: Antonio Magini-Coletti
Il sacrestano: Ettore Borelli
Spoletta: Carlo Ragni
Sciarrone: Silvio Beccucci
Direttore: Egisto Tango
Tratto da “IL MONDO ARTISTICO” del 1° novembre 1900
IL RIGOLETTO DI ENRICO CARUSO E TITTA RUFFO A VIENNA
(6 ottobre 1906)
Da Vienna (Nostra corrispondenza)
Anticamente quando finivano le stagioni d'opera italiana a Vienna e che i viennesi erano abituati a sentire tutti gli anni dei cantanti di prim'ordine non v'era forse quell'entusiasmo quasi infantile che v'è da qualche tempo per i cantanti italiani di gran fama che vengono a farsi udire per la prima volta sulla maggior scena tedesca.
Dopo Marconi, Tamagno e Bonci, fu la volta di Caruso e nessuno si ricorda mai d'aver udito che l'opera in una sera abbia dato l'incasso di 40.000 corone! Fu un delirio, e credo che infiniti peccati mortali furono commessi per conquistare un posto, anche nella quarta galleria. È però vero che la maggior parte delle persone in questi casi eccezionali vogliono andarvi per vanità, per poter dire di essere stati presenti a questa festa dell'arte.
Caruso scelse il Rigoletto; a dir il vero mi sembra che per un artista della qualità di Caruso la scelta fu piuttosto meschina. La parte del Duca è assai bella, ma piccola, e sono piuttosto Gilda e Rigoletto che hanno le parti principali. Caruso cantò da pari suo, cioè divinamente. La sua voce dolce e flessibile, la sua emissione, la sua intonazione, tutto è delizioso in questo divo; dopo "la donna è mobile" vi fu un urlo di frenetico entusiasmo.
Il baritono Titta Ruffo nella parte di Rigoletto ebbe successo quasi pari a quello di Caruso e la Kurz (Gilda) mandò in visibilio l'uditorio viennese.
Il maestro Spetrino, che lascia la nostra città e l'Opera Imperiale, dove non si danno più che opere vecchie e smodate, ad eccezione delle wagneriane, contribuì al successo della serata dirigendo con la sua solita grandissima intelligenza e con fuoco meridionale, anche lui con gli artisti tutti ebbe i suoi applausi e ben meritati.
Caruso avendo cantato per il fondo pensioni dell'Opera, rinunciando alla paga di 10.000 fr. Che avrebbe dovuto avere per contratto, fu da S.M. l'Imperatore (presente alla recita n.d.r.) nominato Cantante di camera, onore altissimo, riservato a pochissimi e sceltissimi artisti. Sono felice di poter constatare ancora una volta come l'arte vera italiana sia altamente apprezzata fra le nostre mura.
ANGELUS
Tratto da: Mondo Artistico anno XL n°46 del 1 novembre 1906.
La locandina
Rigoletto: Titta Ruffo
Il Duca: Enrico Caruso
Gilda: Selma Kurz
Sparafucile: Wilhelm Hesch
Maddalena: Hermine Kittel
Monterone: Alexander Haydter
Marullo: Gerhard Stehmann
Borsa: Arthur Preuß
Giovanna: Theodora Drill-Orridge
Il Conte di Ceprano: Ferdinand Marian
La Cont. di Ceprano: Jenni Pöhlner
Un paggio: Bertha Kiurina
Direttore: Francesco Spetrino
Cronaca delle due rappresentazione di PAGLIACCI tenute al Teatro Dal Verme di Milano
nella unica rentrée italiana di ENRICO CARUSO nel settembre del 1915
...Ma in verità persino coloro, che facevano per la rentrée di Caruso le migliori previsioni, sono stati sbalorditi da un successo che ha presentato lʼirruenza e la violenza dʼun uragano.
Tutto ciò dunque è stato ottenuto dal Caruso puramente e semplicemente col ʻ Vesti la giubbaʼ : una tale celerità nel raggiungere la meta trionfale farebbe invidia a Cesare. Ma gli è che in quel breve
canto il Caruso ha proprio trovato il modo di dare intiera la misura della sua arte, mettendone in valore le caratteristiche fino agli ultimi loro limiti: codesta concentrazione nellʼimpiego dei mezzi ha avuto per naturale conseguenza nellʼanimo del pubblico una corrispondente intensità di effetti.
Il Caruso è tornato a noi dopo tanti anni di assenza con una voce dal corpo sensibilmente aumentato e dal timbro diventato più pieno e più maschio, con una molto maggiore potenza di fiati, con moltomaggiori risorse dʼespressione, insomma con un complesso nuovo, nel suo canto, di qualità altamente
drammatiche, che sono in un contrasto spiccato coi ricordi che il pubblico milanese aveva del tenore pieno di grazie e di delicatezze quasi femminee dellʼAmor ti vieta della Fedora e dʼaltri celebri pezzi dello stesso genere. Così allorché ieri sera si è rivelata nellʼarte del Caruso una metamorfosi non
meno profonda che inaspettata già la sorpresa fu per lʼuditorio una potente causa di emozione.
Sʼaggiunga che molti degli effetti usati dal Caruso riuscirono genuinamente efficaci: delle messe di voce riuscitissime grazie alla perfezione del giuco del respiro, delle vibrazioni chʼeran dei veri effetti di tremolo introdotte a significare lʼinteso dolore e praticate con unʼuguaglianza e una finezza meravigliose, le note più potenti prese di scatto con una sicurezza superba, queste ed altre
particolarità nelle quali la tecnica più abile veniva messa opportunamente a servizio dellʼespressione del sentimento, secondo la tradizione più fortunata del canto italiano, spiegano a sufficienza come allʼudire il Vesti la giubba il pubblico sia passato rapidamente dalla più viva sorpresa al più schietto entusiasmo.
Nel resto dellʼopera la parte di Canio presta al cantante poche occasioni di brillare: invece altre occasioni di mettere in mostra delle qualità di attore presenta la scena finale del secondo atto. Anche essa fu eseguita dal Caruso assai bene, sicchè dopo il secondo atto egli ebbe cogli altri artisti e col Toscanini quattro chiamate”
Il cast era così composto:
Canio: Enrico Caruso
Nedda: Claudia Muzio
Tonio: Luigi Montesanto
Silvio: Armand Crabbé
Beppe: Angelo Badà
Direttore: Arturo Toscanini
Le recite furono due, esattamente il 23 e 26 settembre 1915
Tratto da Il Corriere della Sera del 24 settembre 1915
L'ELISIR D'AMORE
Buenos Aires, Teatro Colón 17 giugno 1917
“[…] Di fronte alla frenesia collettiva suscitata dalla voce di Enrico Caruso, incarnante da grande attore la parte di Nemorino nellʼ “Elixir dʼAmore”, il critico mette sotto chiave le sue predilezioni artistiche, le sue esigenze plasmate sui canoni del progresso dellʼarte, e si confonde con la folla per applaudire anche lui. E se ciò non fa, vuol dire che è un mestierante, un dottrinario mancante della divina facoltà dellʼemozione e dellʼentusiasmo.
Ieri sera il Colón ebbe da Enrico Caruso la sua prima veramente straordinaria, memorabile serata della stagione. Levando lo sguardo dal “parterre” incantevole della platea fiorita, come dai palchi lussureggianti, alla “cazuela” alla "grada", al loggione rigurgitante se ne aveva una impressione di meraviglia. Come faceva tutta quella folla— vere muraglie di teste— a stare pigiata là su, là su! E trattenendo quasi il respiro nellʼafa calda, impregnata di voluttuose insidie? Le esplosioni di applausi non potevano essere che formidabili e pure vennero frenate per unanime consenso, anche quando una minoranza premurosa volle salutare lʼarrivo in iscena del gran cantante idolatrato.
Lʼaspettativa immensa faceva da calmiere e in fondo allʼanimo di ogni spettatore, come avviene sempre in simili serate, era annidata la esigente scrupolosità di un giudice.
Il quadro del primo atto nel suo insieme, chiuso in una cornice decorativa modificante la sagoma del boccascena, aveva la intonazione dei colori di una ottocentesca preziosa cromolitografia inglese, Adina — la Nera Marmora — era un incanto di fanciulla; intorno a lei tutto aveva unʼintonazione da figurine di miniatura.
Enrico Caruso mostrò subito come dellʼingenua persona di Nemorino facesse una interpretazione personalissima, per naturalezza e cura di ogni dettaglio. Cantò da sublime maestro “Quanto è bella, quanto è cara!”; secondo la lettura che Adina faceva graziosamente della “Storia di Tristano” animando intorno a lui il movimento scenico, avvivato poi anche più allʼarrivo del drappello di soldati capitanati da Belcore — Taurino Parvis — suscitante la gelosia di Nemorino; la scena e duetto tra lui e Adina ebbe espressione e vivacità affascinante e…Non vʼera nessuno nella sala, tra quelle migliaia di persone che di tante belle cose si commovesse? Che impressione se ne aveva?...
Lo sapemmo al cader del velario, quando i mille e mille giudici arcigni dallʼemozione scacciati dai cuori furono travolti nel nulla dallʼirrompere dellʼuragano che si prolungò con ben sette chiamate, per il Caruso che non volle mai scompagnarsi dalla signorina Marmora e dal baritono Parvis.
Quando finalmente il clamore delle chiamate cessò e fu la sala a diventare, nello sfolgorìo delle luci, spettatrice a se stessa, vi aleggiava [sic per “alleggiava”] un sorriso di sodisfazione [sic per“soddisfazione”]: avevamo tutti bevuto alla desiata fonte della melodia!
Non ci è possibile, allʼora in cui scriviamo, di continuare a dettagliare le faci dello spettacolo, nel quale la signorina Marmora ebbe agio di fare apprezzare le fulgide doti della sua bella voce, guadagnandoci anche un particolare applauso, dopo il duetto con Dulcamara, cantando “La ricetta è il mio visino”; nel quale il baritono Parvis piegò con maestria la sua voce sonora alla giocosità non facile della parte di Belcore; il basso comico Azzolini dette tutta la voluta comicità, senza esagerazioni, da artista intelligente alla parte di Dulcamara, e Enrico Caruso fu grande, convincente, stupendo come attore e come maestro del bel canto, sino a trascinare in fine il pubblico alla frenesia quando giunse lʼanelato momento della romanza “Una furtiva lacrima”. Non è possibile dettagliare le fasi dello spettacolo nel quale le chiamate non si contarono; al quale il maestro Marinuzzi prodigò tutte le carezze di un interprete scrupoloso, ossequente alle tradizioni di buon gusto, secondato a meraviglia dallʼorchestra; nel quale i cori se non furono perfetti non guastarono, come non è possibile dire dellʼansia che fece battere allʼunissono [sic perunisono] I cuori di tutti gli spettatori quando lʼorchestra con le poche concessagli da Gaetano Donizetti, in uno dei suoi più ispirati momenti di genialità, preludiò il ritorno di Nemorino in iscena per sospirare la romanza incantatrice!
Venite a dirci finché vi piace stamane che la voce di Enrico Caruso non è più quella che lo fece proclamare, mentre il secolo dei grandi cantanti spirava, lʼunico legittimo erede al glorioso trono; tutti i ragionamenti a freddo su quello che era e quello che è il grande, il sommo cantante, non servono a nulla. Passateli pure in rassegna I nomi di tutti gli eccelsi tenori di cui si è perduto lo stampo, che furono famosi nella parte di Nemorino; il fanatismo dellʼapplauso che egli suscitò ieri sera, il fragore delle chiamate che continuavano quando noi frettolosamente lasciammo la sala incantata per venire a segnare ancora una data fulgida del bel canto italiano in questa cronaca, vi risponderanno con voce formidabile: il Re è lui!
Dienvi
Tratto da "La patria degli italiani" del 18 giugno 1917.
la locandina
Nemorino: Enrico Caruso
Adina: Nera Marmora
Belcore: Taurino Parvis
Dulcamara: Gaetano Azzolini
Giannetta: Lucia Torelli
Direttore: Gino Marinuzzi
Questo Elisir ebbe altre due repliche il 24 giugno e il 27 luglio (nella recita del 27 luglio il ruolo di Adina fu sostenuto da Maria Barrientos.
(N.d.R.) Il quotidiano "La patria degli italiani" pubblicato in Argentina, fu il più importante quotidiano in lingua italiana pubblicato fuori dall'Italia. Il giornale a partire dal 1928 divenne apertamente antifascista con l'ingresso in redazione di diversi esuli politici. Il fascismo cercò sia di acquistarlo attraverso l'industriale Vittorio Valdani, sia di creare giornali suoi antagonisti e di diffamarlo: riuscì infine a farlo fallire premendo sugli inserzionisti perché non vi facessero pubblicità.
"La patria degli italiani" chiuse definitivamente nel 1931.
Nota:
Tutti i cast qui elencati sono tratti dal volume: "Enrico Caruso Cronologia delle recite e discografia"
di Pietro Sandro Beato